Il Maestro e la «Ginestra» (1995)

Intervista di Maria Serena Palieri, «l’Unità», 20 marzo 1995. Il testo è stato poi raccolto in W. Binni, La disperata tensione. Scritti politici (1934-1997) cit.

IL MAESTRO E LA «GINESTRA»

Walter Binni ha solo 82 anni. Diciamo «solo» perché sono quasi sessant’anni che questo signore, oggi dalla fisionomia affettuosa, con degli occhi maliziosi da contadino umbro, domina in Italia il panorama della critica letteraria. Binni, nato a Perugia, nel ’36 pubblicò infatti sotto il titolo La poetica del decadentismo la tesi di laurea: testo studiato ancora oggi e di stupefacente, diciamo pure misteriosa complessità per un ventitreenne. «Poetica» è una parola che tornerà nei suoi studi: perché è il termine che racchiude il nettare del suo metodo critico. L’altro leit-motiv di Binni è il colloquio con Leopardi. «Il poeta della mia vita», ha scritto. Dal ’47, quando pubblicò per Sansoni La nuova poetica leopardiana, la sua lettura «eroica» del poeta è stata al centro di una querelle che ha ciclicamente attraversato quarant’anni di storia della sinistra. Binni parla del «suo poeta» con una amorosa dedizione che è quasi pari a quella con cui parla della signora Elena: la moglie, oggi ottantenne aggraziata e vigile, della quale ci mostra una fotografia in bianco e nero, di quando studentessa gli concesse – dice con splendida galanteria – «l’ambitissimo consenso». Il ritratto è su un tavolino di legno biondo. Nel grande soggiorno l’atmosfera è classica. Il professor Binni ha dato prova appunto nella sua vita di essere uomo dalle passioni costanti. Ma figlio del suo tempo: «Per chiarezza, dovrò dirle che dopo essere stato socialista e poi del Manifesto, ultimamente ho aderito a Rifondazione comunista», spiegherà, congedandoci con un sorriso d’intesa.

Non c’è traccia di macchina da scrivere né di computer, professore, in questa stanza. Lei ha sempre scritto a mano?

Sempre, tranne il saggio Poetica, critica e storia letteraria. Ma dopo quell’esperienza del ’63 la macchina mi ha dato ai nervi. La mia compagna a un certo punto comprò un libretto per imparare a scrivere a macchina con dieci dita, e da allora è lei che interpreta la mia calligrafia indecifrabile, che con gli anni è diventata quasi una linea.

Crede che il computer abbia creato un’estetica diversa?

Al fondo no. Può introdurre qualche modificazione su memoria e concentrazione, forse. Ma non ci ho fatto molti pensieri. Io sono sempre stato portato a guardare dentro la testa, degli scrittori. Anche Leopardi, in fondo, incoraggia a questo nelle sue prese di posizione teoriche e critiche. Andrebbe meglio indagato: c’era, in Leopardi, la stoffa del grande critico di poesia. Sempre di stampo materialista: insegna a guardare al centro. Pensavo in questi giorni a Burri, era un mio conterraneo. Nel suo studio teneva un solo libro, i Canti di Leopardi. Sí, c’erano delle affinità. Nella Ginestra c’è quel che di screpolato che fa pensare a certe tele, sacchi squarciati di Burri.

Nella premessa alle «Lezioni leopardiane», ora pubblicate in volume, scrive della sua scelta per Leopardi in termini intimi, affettivi. Ritiene che ogni critico scelga cosí – con passione esistenziale – il proprio autore?

Su questo c’è stata, anche, una possibile discussione con Contini. Lui diceva che De Sanctis si sentiva troppo leopardiano per capire Leopardi, per dirla cosí alla buona. Io invece ho sempre pensato che una consonanza affettiva, di disposizione, di radici, anche ideologica, favorisca la comprensione. Anche se non hai la disponibilità iniziale devi poi provarci, metterti nei panni per capire. Visto che un punto chiave della metodologia, per me, è sempre stato lo studio di poetica, cioè capire la «direzione» dell’autore; sono contrario all’idea che il poeta non sappia quel che fa.

Con quali autori ha avuto difficoltà a entrare in sintonia?

Ho faticato con un autore che pure ho apprezzato, Metastasio. Leopardiano, Metastasio? Per me è un’offesa. Rousseau parlava del «poeta delle modificazioni del cuore». Ma Metastasio è anche cortigiano, privo di ogni protesta. Viceversa, ecco l’attrazione che ho provato per il Michelangelo scrittore delle Rime, e anche per Foscolo che non raggiunge la purezza di tanto Leopardi, ma è un grande personaggio e un grande poeta. L’attrazione, anche, per poeti su cui non ho scritto, come Montale. O come Carlo Michelstaedter: delle poche poesie che questo giovane ha scritto mi ha attratto il fondo drammatico, tormentato. Da alcuni autori, come Manzoni, mi sono tenuto lontano. Riconosco la sua grandezza, ma è uno scrittore moderato. Il taglio finale dei Promessi sposi è rasserenante. E nella vita una delle parole che non ho mai accettato e capito è «serenità».

Ma «serenità» non è una parola piatta. Non è come «tranquillità».

Altre parole analoghe piacciono anche a me: semplicità, familiarità. Però non ricordo momenti sereni, sganciati dai tormenti personali o storici… Certo, per avere un’idea vera di «serenità» forse bisogna pensare al finale della Passione secondo Matteo di Bach, dove dice «dolce pace». La apprezzo, per me però la prima molla è sempre di scatto, di reazione.

Le sembra che questo momento in Italia sia meno drammatico di altri?

Lo è, molto. Ma questa è la nostra storia sempre.

Ha scritto che a un certo punto a riavvicinarla a Leopardi fu la lettura di «Ossi di seppia» di Montale.

La forma fratta di Ossi di seppia portava a capire un tipo di poesia moderna, com’era già la Ginestra

Da Leopardi a Montale corre il filo di una cultura radicalmente laica. È un atteggiamento verso la vita che in Italia sembra minoritario. È colpa solo del cattolicesimo o anche dei miti e delle illusioni della sinistra?

Guardi, io sono stato e sono un uomo di sinistra, anche se in posizione critica. Certo Leopardi è un appoggio fortissimo per questo che lei dice. Ma il suo laicismo è fortemente democratico, non paternalistico. E con una carica morale che in Italia non ha avuto molte repliche: si comincia con Dante, poi Mazzini a modo suo, De Sanctis, Gramsci, e fra gli uomini che ho conosciuto io Parri, potrei dire… Il nostro paese ha avuto la sventura di vivere sempre un forte distacco da queste cime. Il laicismo comunque viene inteso, forse in chiave massonica, come tolleranza. Invece l’intransigenza è per me un fatto fondamentale.

Parlava, però, di un distacco del paese «da queste cime».

Qui bisogna distinguere. C’è, per dirla con Dante, un’«umile Italia», quella che piaceva anche a Leopardi. Ci sono persone sane. Questo tipo di persone c’è tuttora, anche se indubbiamente in questi ultimi tempi col consumismo c’è stato un appiattimento, un imborghesimento. Ma poi c’è una specie di marmaglia che ha l’assoluto disprezzo del bene comune, dei deboli, degli emarginati, dei diversi: i gay, per esempio, ma a me interessano di piú gli extracomunitari. È una marmaglia che è riemersa con forza, come un averno che affiora sulla terra, per dirla con Leopardi. Ma cosí entriamo troppo in cose…

Non rifuggirà dal parlare di politica?

In effetti ho sempre detto la mia, quando è capitato. D’altronde fin dal ’36 appartenevo a gruppi clandestini. Poi, anche in altri tempi: nel ’66, quando ci fu lo scontro forte all’università tra fascisti e democratici, nel discorso funebre per Paolo Rossi chiamavo quegli sgherri «tetri straccioni intellettuali e morali che siedono in Parlamento». Cosa che diede fastidio a Pertini che era presidente della Camera e considerava sacri i parlamentari.

Nella lezione che lei tenne a Roma, alla Sapienza, in occasione del suo ottantesimo compleanno, parlando della poetica di Leopardi disse: capirla non significa condividerla. Una presa di distanza?

L’ha intesa cosí? Io volevo aprirmi, piuttosto, anche agli studenti che avevo in aula e che erano di chissà quale natura. Parlavo soprattutto agli studenti cattolici. Si capisce che Leopardi non è stato amato dai cattolici.

La sua lettura «eroica» della «Ginestra» uscí nel ’47 in concomitanza con il saggio su «Leopardi progressivo» di Luporini. Il gemellaggio con Luporini nel tempo le ha procurato piú piacere o piú fastidio?

Fastidio, qualche volta. E certo dava fastidio anche a lui. Nella critica leopardiana ci mettono sempre insieme, Binni e Luporini, Luporini e Binni. Ma è curiosissimo l’intreccio. Scrivendo La nuova poetica leopardiana io non conoscevo evidentemente il saggio che nello stesso periodo stava stendendo Luporini, e che io considero importantissimo. Avevo di fronte invece un suo vecchio saggio del ’38, già sul pensiero di Leopardi, in cui arrivava a un’affermazione di origine, sí, esistenzialistica, ma che lí diventava mistica: «È nella bestemmia che si arriva a conoscere Dio», scriveva. Sicché nel mio saggio io polemizzavo con questo suo misticismo. Intanto però lui stesso, nel suo nuovo studio, si correggeva. Ultimamente mi pare che avesse però ceduto di nuovo alla sua vecchia tentazione esistenzialistica, quasi alle idee di religiosità negativa del ’38, sollecitato da questo heideggerismo, per me spropositato, a cui aderiscono anche tanti uomini di sinistra.

Insieme siete stati criticati per aver dato di Leopardi una lettura «progressista». Pensa che il gemellaggio abbia fatto fraintendere il suo pensiero?

Sí. Io sostengo che in Leopardi c’è un progressismo singolare. L’idea di progresso è legata all’idea che nell’uomo è fondamentale l’amor proprio, l’amor di sé, il senso di sé, senza il quale non si agisce. Ma questo amor di sé si sdoppia per Leopardi, diventa da un lato egoismo, il «pestifero egoismo», il disvalore assoluto, di cui abbiamo insigni esempi anche attualmente. Invece, se rivolto al bene comune diventa «eroismo». Non progressismo ma un pessimismo energetico, non inerte. Che stimola a prendere posizione. Di tutt’altro senso dal pessimismo reazionario.

Nel ’92 Mario Rigoni ha proposto una lettura «pre-nietzschiana» di Leopardi. La destra finirà per avocarlo a sé?

Per la verità le cose piú recenti, da questo fianco, vertono sempre piuttosto sulla filosofia di Leopardi. Divergendo quindi da me, che dico che il pensiero, senza la poesia, non basterebbe a fare la grandezza di Leopardi. Vede Severino, Toni Negri, quanti filosofi l’hanno ripreso tirandolo alle conclusioni loro. Per me è una prospettiva antiquata.

Nella «Poetica del decadentismo» lei liquidava il pensiero di Freud come «grossolano». È ancora di quel parere?

No. Tenga conto che il Italia il freudismo è penetrato tardi. Mantengo però forti riserve sull’esaustività dell’applicazione alla critica letteraria. Penso ai vari Lavagetto.

Tra le antinomie di Leopardi ce n’è una di significato meno immediato: Leopardi contrappone la «noia» alla «felicità». Perché?

La noia è il puro sentimento dell’esistenza ed è il rifiuto di vivere, visto il carattere negativo dell’esistenza. È il colmo dell’infelicità.

Condivide questo giudizio?

Per me la noia è un fatto secondario. L’infelicità sí, la conosco.

Si è fatta un’idea di quale sia il segreto della creatività?

Poeta nascitur et fit. Ma il nascitur è fondamentale.

Un critico convive tutta la vita col rimpianto di non essere lui l’artista, gli artisti che ama?

Un po’ sí. Ma veda, per me fare critica è stato il mio modo di fare poesia.